»PORTARE ALLA LUCE TESORI – Salvaging treasures - The amateur heart

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Michael Guarneri: Come hai conosciuto Béla Tarr?

Fred Kelemen: L'amicizia tra me e Béla Tarr iniziò con uno sguardo. Era il Gennaio del 1990 e Béla si trovava a Berlino in occasione di una retrospettiva dedicata ai suoi film presso il cinema Arsenal. Una sera, per puro caso, ci trovammo nello stesso caffé, seduti a tavoli diversi: ancora non ci conoscevamo, ma i nostri sguardi si incrociarono. Qualche giorno dopo ci incontrammo, sempre per caso, in un ufficio dell'Accademia di Cinema e Televisione di Berlino [Deutsche Film- und Fernsehakademie Berlin], e facemmo due chiacchiere. Questa è la storia di come ci siamo conosciuti. Diventammo ben presto amici e dall'amicizia nacque un sodalizio professionale.
Da quel fortunato/fortunoso incontro all'Accademia di Cinema e Televisione di Berlino sono passati ormai ventiquattro anni, e a partire da quel fatidico giorno una strada lunga e accidentata ci ha condotto al nostro ultimo film, Il cavallo di Torino, presentato in anteprima mondiale proprio a Berlino, nel 2011.

M. G.: Quando l'ho intervistato qualche giorno fa, Béla mi ha parlato dell'importanza dei suoi collaboratori e del lavoro di squadra che sta alla base delle sue opere cinematografiche. Puoi parlarmi dell'atmosfera creativa sul set dei suoi film?

F. K.: Un film parte sempre dall'idea o dalla visione di una persona. Questa idea o visione è come la scintilla che serve per accendere un fuoco. Per far diventare un film realtà, però, serve ben più di un'idea: non basta una scintilla per accendere un fuoco – c'è bisogno di legna, di combustibile e di ossigeno.
Migliaia di idee possono passarci per la mente. La cosa più difficile consiste nello scoprirle e nel recuperlarle, come se fossero tesori sepolti nell'abisso della nostra anima: riportarle alla luce, sulla terraferma della realtà, in modo da renderle visibili a tutti. Solo così queste idee potranno brillare nella luce riflettente dello spirito e rivelare la bellezza della loro origine nascosta.
Tutto ciò, evidentemente, non può essere fatto da una persona sola. C'è bisogno di alleati, di complici, una squadra di "cospiratori" che condividono una visione e una passione, che credono in un obiettivo comune e si fidano ciecamente l'uno dell'altro – persone che sono praticamente, intellettualmente e spiritualmente qualificate, persone in grado di salvare i tesori dell'anima di cui ti parlavo. Sai, nel nostro mestiere si lavora in un regime di mutua dipendenza: nessuno può fare alcunché da solo. Perciò sul set dei film di Béla c'era un'atmosfera di devozione, concentrazione, attenzione e pazienza, la stessa attesa carica di nervosismo e gioia che provano coloro che si immergono negli abissi per portare alla luce un tesoro. Almeno, così è come l'ho vissuta io: sono queste le mie emozioni.

M. G.: Cosa richiedeva da te Béla, in quanto direttore della fotografia? Che grado di "libertà creativa" avevi?

F. K.: Béla non "richiedeva" niente da me. Dopo aver letto la sceneggiatura, di solito parlavamo di come sarebbe diventata una volta trasposta nella realtà, e confrontavamo le nostre opinioni sulla visione che doveva guidare l'intero film così come le singole scene e inquadrature. Infine, discutevamo su come realizzare questa visione nella pratica.
E' un po' come ballare insieme a qualcuno. Prima si sceglie il tipo di musica e la si ascolta. Poi si raggiunge un accordo sullo stile e i passi, la coreografia, eccetera. Infine si danza. La libertà creativa esiste solo all'interno di uno stile concordato insieme e di una visione-guida comune. Se decidi di ballare un tango, ovviamente sarebbe ridicolo e disastroso se il tuo partner improvvisamente iniziasse a ballare un valzer semplicemente perché gli va di farlo. Non sarebbe più possibile danzare insieme.

M.G.: Quale è il tuo contributo ai film diretti da Béla?

F.K.: Il mio contributo agli ultimi film di Béla (e al cortometraggio Journey to the Plain) è quello che i tuoi occhi vedono sullo schermo.

M. G.: Oltre a dirigere film (Fate, Frost, Abendland, Krisana...) e a lavorare come direttore della fotografia per i film di Béla, tu insegni alla Sarajevo Film Academy. Hai frequentato anche tu un'accademia del cinema, quando eri giovane?

F. K.: Ho frequentato l'Accademia di Cinema e Televisione di Berlino, dall'Autunno 1989 all'Estate del 1994. Come ti ho raccontato, è lì che nel 1990 conobbi Béla.
Ho iniziato a lavorare con gli studenti nel 1995 presso il Centre d'Estudis Cinematogràfics de Catalunya a Barcellona, su invito del direttore della scuola Hectór Fáver, che aveva visto il mio film Fate al Festival del Cinema di San Sebastián. Ero molto scettico sul fatto di diventare insegnante perché non lo avevo mai fatto prima, e alcuni studenti erano più vecchi di me. Ma Hectór mi diede carta bianca perché aveva completa fiducia in me, così accettai il lavoro. Fu un'esperienza grandiosa sia per me, che per gli studenti, che per la direzione della scuola, e fui invitato diverse altre volte. Così, per alcuni anni, ho tenuto un workshop a Barcellona, ogni estate.
Col passare del tempo, sono stato invitato da altre scuole di cinema, accademie d'arte e università, in diversi paesi. All'oggi, sono circa 19 anni che, nelle circostanze più varie, lavoro con studenti provenienti da tutto il mondo, con i background storico-culturali più disparati.
Questo lavoro di insegnamento è un'esperienza fantastica e mi ha insegnato molto dal punto di vista umano. E' un lavoro bellissimo, molto creativo e denso di significato. Anche qui, come per il mestiere di fare cinema, si tratta di portare alla luce qualcosa di prezioso. E' un lavoro spirituale e pratico che richiede le stesse qualità di cui si ha bisogno per realizzare il proprio film, solo meno ego e più pazienza basata sull'amore e il rispetto.

M. G.: Ti consideri un insegnante, un professore?

F. K.: Io sono un esploratore.

M. G.: Alla Sarajevo Film Academy ti occupi dei corsi "Camera 1" e "Camera 2". Cosa cerchi di insegnare esattamente ai tuoi studenti? Quale è il tuo metodo di insegnamento?

F. K.: Sì, a Sarajevo tengo dei workshop relativi al lavoro con la cinepresa in fase di ripresa [camerawork], mentre in altri istituti mi occupo anche di workshop di regia, con elementi di sceneggiatura e direzione della fotografia.
Io non insegno, non tengo lezioni. Ciò che è essenziale non può essere imparato a tavolino: va esperito. Perciò, io aiuto gli studenti a fare esperienze creative. Creo certe situazioni, cerco di preparare un certo terreno artistico, spirituale, intellettuale, e, insieme agli studenti, mi ci addentro. Il mio lavoro consiste nel supportare gli studenti e incoraggiarli ad attraversare frontiere fisiche e mentali. Idealmente, alla fine del corso, ognuno dei partecipanti ha avuto un'esperienza personale forte che gli ha trasmesso, prima di tutto, una conoscenza più approfondita di se stesso. Questa conoscenza di sé renderà lo studente più forte, meno spaventato, meno dubbioso dei propri mezzi, e la sua esistenza risulterà arricchita dal gusto della gioia creativa. Per me è importante far brillare la propria anima e quella degli altri.

M. G.: In che modo la tua pratica di insegnamento si differenzia dal modo in cui il cinema veniva insegnato quando eri studente?

F. K.: Le differenze sono tantissime. Diciamo che cerco di dare ai miei studenti ciò che da studente avevo sempre sperato di ricevere e che invece non sono mai riuscito ad avere.

M. G.: Vorrei approfondire un tema a cui accennavi poco fa parlando di "esperienze creative". Ti pongo la questione in termini secchi, quasi brutali: si può certamente insegnare a una persona come usare una cinepresa, ma si può insegnare il Cinema (e l'Arte in generale)?

F. K.: Hai pienamente ragione quando dici che si può insegnare a una persona ad usare delle macchine e degli attrezzi in modo abile e intelligente. Fare film è, tra le altre cose, un mestiere che richiede un'abilità e una destrezza di tipo artigianale [craft]. Inoltre, la visione, la sensibilità, la ricettività di una persona possono essere allenate e affinate; la mente e il cuore possono essere aperti e ispirati. Ma il talento necessario non può certamente essere insegnato: è un dono. E per quanto riguarda specificamente il cinema, è necessario avere una particolare "cinegraficità" [kinegraphicality], un sesto senso speciale per quest'arte così complessa. Se qualcuno possiede questo dono, deve prendersene cura, difenderlo e lavorarci sopra duramente per farlo sbocciare. Nei workshop che tengo si tratta proprio di aiutare le persone a "liberare" il proprio talento.
M. G.: A tuo parere, c'è differenza tra il filmmaker dilettante [amateur] e il filmmaker professionista?

F. K.: Io non vedo una contraddizione tra i due termini, a dire il vero. E' solo una questione di definizioni. "Amateur" – che significa "dilettante" – è una parola etimologicamente connessa ad "amore". In senso positivo, allora, un dilettante (colui che fa qualcosa a livello "amatoriale") è semplicemente una persona che ama ciò che sta facendo, e che lo fa per amore. In senso spregiativo, invece, il dilettante è colui che non è professionalmente qualificato per fare un certo lavoro, colui che non ha le conoscenze tecniche necessarie. Ma non è forse vero che un professionista, cioè una persona estremamente qualificata a livello tecnico, può essere un "amatore", cioè amare ciò che fa e farlo per amore?
E' questo il mio motto e la mia linea-guida: essere un professionista con il cuore di un amatore.
.................................................................................................................................................................... "Armonie contro il giorno. Il cinema di Béla Tarr" di Marco Grosoli, Bébert Edizioni, Bologna / Italia, Novembre 2014